Nove anni dopo il referendum che portò il Regno Unito fuori dall’Unione Europea, i dati parlano da soli: il 61% degli inglesi considera oggi la Brexit un errore, solo il 13% la giudica un successo e il 56% sarebbe pronto a sostenere un ritorno nell’UE.
Ancora più eloquente è il fatto che il 65% della popolazione chiede rapporti più stretti con Bruxelles, segno evidente che l’isolamento non ha portato libertà ma nuove catene fatte di burocrazia, costi e perdita di competitività.
Quella che era stata raccontata come una riconquista di sovranità si è rivelata un boomerang: più difficoltà per le imprese, maggiori barriere commerciali, meno influenza politica e la necessità quotidiana di negoziare con l’Europa da una posizione di debolezza. Oggi Londra cerca di ricucire ciò che ha strappato, ma tornare indietro è quasi impossibile.
Ed è qui che il parallelismo con San Marino diventa inevitabile. Mentre una potenza mondiale con 67 milioni di abitanti scopre che stare fuori dall’Europa significa perdere terreno, nella nostra Repubblica c’è ancora chi si oppone all’Accordo di Associazione con l’Unione Europea, illudendo i cittadini che restare ai margini significhi essere più liberi. Ma se persino il Regno Unito, con il suo peso economico, militare e diplomatico, oggi rimpiange la Brexit, quale speranza reale avrebbe un microstato di 34mila abitanti di fare meglio da solo?
La lezione britannica è chiara: uscire è facile, vivere fuori è un disastro.
San Marino ha ancora l’occasione di scegliere se imparare dall’errore altrui o se rischiare di ripeterlo, pagando un prezzo che per un Paese così piccolo sarebbe ancora più alto.