In tanti lo attaccano senza neppure aver letto di cosa si tratta. L’accordo con l’UE non trasforma San Marino in uno Stato membro: resta un Paese terzo, indipendente, con piena sovranità.
È un patto tecnico-commerciale per collaborare meglio con chi ci circonda. Il vero problema, forse, è il nome scelto: “accordo di associazione” può trarre in inganno. Un nome più chiaro – come “patto di buon vicinato con l’UE” – avrebbe evitato molte incomprensioni.
Negli ultimi giorni, il dibattito sull’accordo di associazione tra San Marino e Unione Europea è stato travolto da toni allarmistici e, spesso, da vere e proprie mistificazioni. Ma la verità – già spiegata più volte pubblicamente anche dal Segretario di Stato Luca Beccari – è che San Marino, anche dopo la firma dell’accordo, continuerà a essere un Paese terzo. Non entrerà nell’UE.
Si tratta di un’intesa giuridica e commerciale che permette alla Repubblica di funzionare meglio nel contesto europeo in cui già vive e lavora ogni giorno, dato che oltre il 90% delle esportazioni sammarinesi è diretto verso paesi UE. Nessuna cessione di sovranità, nessuna bandiera da cambiare, nessun Commissario europeo a San Marino: la Repubblica resta pienamente autonoma, ma si dota di strumenti per essere compatibile con le regole del mondo moderno.
Invece di gridare al lupo, sarebbe meglio approfondire i contenuti dell’accordo, disponibili sul sito della Segreteria di Stato, e fare un confronto costruttivo, anche alla luce delle numerose serate pubbliche organizzate negli ultimi due anni – dalla stessa Segreteria, dalla Commissione Affari Esteri, fino all’incontro promosso tempo fa dalla SUMS – che hanno offerto a tutti i cittadini l’opportunità di informarsi.
Il problema, forse, sta tutto nella parola “associazione”. Un termine tecnico, scelto a livello diplomatico, che però nell’immaginario comune suona come “adesione” o “annessione”.
Niente di più lontano dalla realtà. Si tratta, invece, di un “accordo di buon vicinato”, come avviene per Norvegia, Svizzera, Andorra. Un patto che consente a San Marino di non restare un’isola burocratica nel mezzo dell’Europa, tagliata fuori da carte di credito, servizi digitali, export facilitato e accesso a bandi comunitari.
San Marino non diventa un satellite dell’UE: non è costretto ad applicare le politiche europee su immigrazione, politica estera o bilancio – ambiti fortemente impattanti e sensibili – ma si limita a recepire le regole tecniche e commerciali necessarie a operare nel mercato unico. È questo il cuore dell’accordo: dare prospettiva alla nostra economia senza rinunciare alla sovranità.
Il referendum, se ci sarà, potrà e dovrà rappresentare un’occasione di confronto serio, ma serve prima un’informazione reale, non una polarizzazione basata su slogan e paure infondate.
Chi rifiuta l’accordo solo per “paura dell’Europa” dovrebbe forse chiedersi come può un microstato rimanere sostenibile senza relazioni forti con chi lo circonda.
A meno che non si pensi davvero di spostare fisicamente la Repubblica da un’altra parte del pianeta, il confronto con l’UE – volenti o nolenti – è inevitabile. E affrontarlo con maturità è l’unica strada per non restare indietro.