Continua la rubrica settimanale “Voci nei Castelli”, promossa dal Comitato “Scuole vive nei Castelli”, per dare spazio a chi, con la propria esperienza di vita, può raccontare il valore profondo della scuola all’interno della comunità.
Dopo le testimonianze di figure autorevoli del mondo sociale ed economico, questa settimana accogliamo una voce dal cuore della scuola stessa: quella della maestra Angela Leardini che per 38 anni ha insegnato con passione e dedizione nel plesso di Montegiardino. Durante il suo cammino professionale, ha formato generazioni di giovani sammarinesi, contribuendo in modo silenzioso ma fondamentale a costruire il legame tra il Castello e la sua scuola, tra le famiglie e l’educazione, tra l’identità e il futuro.
Abbiamo chiesto di condividere memorie, emozioni e riflessioni, a partire da queste due semplici domande:
1. Quali ricordi conserva del suo insegnamento a Montegiardino? Cosa significava per voi e per i bambini avere una scuola così radicata nel Castello?
Ho iniziato a lavorare nella Scuola di Montegiadino nel 1977. Avevo ventitré anni ed era il mio primo incarico, dopo un periodo di supplenze nella Repubblica e dopo diversi anni di tirocinio come educatrice in vari ambiti. Non conoscevo Montegiardino perché fino ad allora risiedevo a Rimini e, risalendo la strada, appena passato il Cimitero, rimasi fortemente colpita dalla bellezza del piccolo borgo storico così ben conservato e unico nella realtà sammarinese per le sue caratteristiche architettoniche e l’impianto urbanistico.
Arrivata nella Scuola mi sentii subito accolta dai colleghi. Era una scuola di campagna, semplice, e mi trovai subito a mio agio. Poi conobbi Agostina, l’insegnante che, da quel momento, sarebbe diventata la mia collega di classe per trentotto anni, fino al mio pensionamento (nel 2015). Lei era appena uscita dalle Magistrali e tra noi nacque da subito un legame professionale e affettivo indissolubile, che fu la forza motrice di tutte le nostre più importanti realizzazioni.
Quello fu l’anno in cui si sperimentò per la prima volta in quel plesso il “tempo pieno”. Questa importante innovazione, unita alla esiguità del numero degli alunni, favorì le condizioni per la messa a punto di un metodo di lavoro collettivo che si rivelò subito di straordinaria efficacia, per il conseguimento degli obiettivi della programmazione scolastica. Era comune, ad esempio, unire in modo permanente, per varie attività, più classi, in particolare le meno numerose.
Questo lavoro creava una forte connessione fra gli insegnanti e gli alunni: eravamo una grande “famiglia”, tanto che io mi rapportavo ad ogni bambino nello stesso modo, e con lo stesso affetto, a prescindere dalla classe che frequentava. Il fatto di essere in pochi rendeva innaturale ragionare in termini di classi separate, e il nostro lavoro di programmazione annuale e settimanale, riguardava sempre tutto il Plesso. Il rapporto Scuola-Comunità-Territorio è sempre stato, nella mia formazione, un punto di riferimento costante.
La realtà di Montegiardino, per le caratteristiche che ho descritto, ha favorito la costruzione e il mantenimento di questo legame fra insegnanti, bambini e famiglie del Castello, nel lavoro scolastico.
Il fatto di essere in pochi ha creato le migliori condizioni per vivere la Scuola come spazio aperto al territorio e a tutti gli stimoli che esso offriva. A questo proposito è stato preziosissimo il costante sostegno, anche finanziario, della Giunta di Castello e la costante cooperazione fra noi, per la realizzazione di progetti che investivano l’intera Comunità di Montegiardino.
Chiarisco con qualche esempio: la Scuola interveniva all’esterno, nel paese, con allestimenti artistici durante le festività natalizie; frequentemente la Scuola partecipava, a maggio, alla festa del Paese con varie attività;
ricordo poi il progetto per l’intitolazione della Scuola, “L’Olmo”, realizzato attraverso una ricerca di storia orale sulla memoria collettiva, con l’aiuto delle famiglie e degli abitanti del paese; un altro importante intervento riguardò la nostra collaborazione alla creazione del parco attiguo alla Scuola, “Le Stradelle”…
Questi progetti avevano come presupposto l’idea di una “cittadinanza attiva” ante litteram, per far comprendere ai bambini con azioni concrete, che i cittadini possono partecipare in prima persona, cooperando fra loro, alla risoluzione dei bisogni del loro Paese. In questa occasione, con il progetto sul parco pubblico, come momento formativo qualificato, ci recammo coi nostri alunni a Fano, dove il Comune aveva avviato, nel 1991, in collaborazione con lo studioso Francesco Tonucci, il progetto “La città dei bambini”.
La sua idea centrale era che occorresse ripensare alle nostre città a partire dai bambini, costruendo pezzo per pezzo un ambiente a loro misura. Un’idea senz’altro rivoluzionaria, di ampio respiro, che non si potrebbe realizzare sradicando una scuola dal proprio paese.
2. Come vede oggi il rischio della sua chiusura? Cosa si rischia, secondo lei, quando una comunità perde la sua scuola?
Ho ricordato solo in minima parte le tantissime esperienze che nel corso dei miei trentotto anni di attività hanno alimentato e dato impulso al rafforzamento del legame fra bambini, genitori e il loro piccolo paese. Ribadisco quindi che il mantenimento della Scuola di Montegiardino, come di altre scuole di piccole realtà della Repubblica, vada difeso ad oltranza, contro le logiche di una politica che qui, come altrove, individua soluzioni alle difficoltà economiche col taglio dei servizi, che, in genere, penalizzano la Scuola e la Sanità.
Se la creazione di Poli Scolastici risponde a logiche di razionalizzazione, ciò non tiene conto dell’effetto di desertificazione degli elementi che danno identità alle piccole Comunità. Dopo le riduzioni dei giorni di apertura del servizio postale, la chiusura dello sportello bancario, la chiusura degli esercizi commerciali e artigianali, lo spopolamento del centro storico (il Castello) causato anche da scelte politiche fallimentari, le Scuole dell’Infanzia ed Elementare di Montegiardino restano l’ultimo presidio per le giovani generazioni e i nuovi nuclei familiari, per mantenere un effettivo riconoscimento identitario e senso di appartenenza alla Comunità locale.
Cancellarlo significa trasformare definitivamente Montegiardino in un “luogo dormitorio”.
I sostenitori della razionalizzazione, talvolta anche pedagogisti accreditati, sostengono che i bambini delle classi con pochi alunni non possono avere gli stessi stimoli di coloro che si trovano in classi più numerose.
Tutto il mio percorso professionale a Montegiardino, come ho cercato di dire, dimostra il contrario. Aggiungo ancora un ulteriore elemento che riguarda i numerosi casi di bambini in difficoltà, provenienti da altre scuole (guarda caso con classi numerose), che sono stati inseriti a Montegiardino proprio per il particolare ambiente “familiare”, che permetteva agli insegnanti di offrire loro il tempo e le attenzioni di cui avevano bisogno.
Non si tratta dunque di una questione numerica, quanto del ruolo che hanno gli insegnanti e, soprattutto, i vari organismi scolastici, preposti ad elaborare e fornire indicazioni e linee di intervento adeguate.
Naturalmente il discorso è ampio e complesso e richiede i necessari approfondimenti, tenendo però saldo l’obiettivo di mantenere in vita le piccole scuole, poiché qualsiasi riduzione della complessità si traduce in semplificazione e semplificare, in questi casi, produce danni irreversibili.
Concludo, parafrasando un pensiero di Luciano Zanotti, con la prima riflessione che mi è venuta in mente quando mi è stata proposta questa intervista: “quando una comunità perde la sua scuola, perde il futuro”. Attraverso queste voci, il Comitato vuole ricordare che la scuola non è solo un servizio: è una presenza viva, un presidio culturale, un punto di riferimento comunitario.