Una Tombola di Natale diventa un caso: un editoriale divisivo fa infuriare i social sammarinesi

da | 12 Dic 2025

Un lettore fortemente indignato ci ha segnalato un editoriale pubblicato nelle ultime ore, dedicato a una semplice tombola di Natale organizzata da un’associazione LGBT, giudicato da molti come fuori misura e profondamente divisivo.
Il testo — firmato da Enrico Lazzari — ha acceso una valanga di reazioni sui social, dove decine di commenti criticano duramente il tono e il messaggio, accusandolo di aver trasformato un evento conviviale in un caso ideologico.
Un’ondata di risposte che, di fatto, riassume e rilancia tutte le contestazioni emerse online contro quell’opinione.

Riceviamo a pubblichiamo:

Ho letto l’editoriale sulla “LGBTombola”.

Poi ho letto i commenti. Poi ho visto il post ripubblicato, con tanto di richiamo al pezzo originale.
E a quel punto non ho più avuto dubbi: qui non siamo davanti a un’opinione impopolare, ma a un caso evidente di arrampicamento sugli specchi.

Perché se fosse stata davvero “solo una riflessione sulle etichette”, come viene ripetuto a posteriori, non ci sarebbe stato bisogno di spiegare, rispiegare, sintetizzare, puntualizzare, correggere, ribadire e infine rilanciare il post come se il problema fosse che “non è stato capito”.

E invece il problema è stato capito benissimo.
Ed è per questo che ha fatto indignare così tante persone.

Nei commenti — che chiunque può leggere — la reazione è chiarissima.
C’è chi scrive:

“È solo una festa di Natale. Una tombola. Aperta a tutti.”

Chi aggiunge:

“Ma davvero una tombola è diventata un problema?”

E chi va dritto al punto:

“L’evento unisce. L’articolo divide.”

Il nodo non è mai stato la tombola.
Il nodo è il racconto forzato, allarmista, caricato di significati che l’evento non aveva.
Parlare di “brandizzazione”, “deriva”, “ossessione”, “normalità sotto attacco” per una serata con panettone e numeri estratti da un sacchetto non è una critica: è una drammatizzazione artificiale.

E quando questa drammatizzazione viene contestata, invece di fermarsi, si rilancia.
Si dice: “non parlavo di questo”.
“Avete capito male”.
“Il punto è un altro”.
“Rileggete con serenità”.

Ma come scrive qualcuno nei commenti:

“Se un articolo ha bisogno dell’auto-esegesi dell’autore, il problema non è chi legge.”

Il passaggio più emblematico arriva quando si insiste sul concetto che “l’etichetta divide”.
Peccato che, nei fatti, quell’etichetta venga usata come bersaglio, come grilletto narrativo, come simbolo di qualcosa che starebbe andando storto.

E infatti molti lo fanno notare:

“Se non ti piace, non partecipi. Perché trasformarlo in un caso sociale?”

Oppure:

“Chi parla di recinti dovrebbe chiedersi chi li sta costruendo davvero.”

Il punto è questo:
nessuno ha obbligato nessuno a partecipare.
nessuno ha escluso nessuno.
nessuno ha tolto nulla a nessuno.

Eppure l’editoriale costruisce un “prima” e un “dopo”, un “noi” e un “loro”, una normalità da difendere e una modernità da contenere.
E quando gli viene fatto notare, risponde che il problema non è ciò che ha scritto, ma come viene letto.

Questo non è dibattito.
È difesa preventiva di una posizione che non regge alla realtà dei fatti.

Il momento più grave, però, arriva con la ripubblicazione del post.
Quando si rilancia la frase sulle “palline”, sulla tombola “brandizzata”, sull’idea che “non basta farla tutti insieme, bisogna farla LGBT”, accompagnandola con il link all’editoriale.

Perché a quel punto cade ogni alibi:
non è più una riflessione astratta sulle etichette.
È la volontà di ribadire un messaggio che la stragrande maggioranza delle persone ha giudicato fuori luogo.

Come scrive qualcuno con lucidità:

“Le iniziative inclusive non tolgono nulla a nessuno. È l’indignazione a creare divisione.”

Ed è esattamente questo che è successo.
Una festa ha unito.
Un editoriale ha diviso.
E l’arrampicata sugli specchi successiva ha peggiorato tutto.

Non c’è nulla di moderno da temere in una tombola.
C’è solo da chiedersi perché, nel 2025, una serata di Natale debba ancora essere messa sotto processo per il nome che porta.

Questo non è pluralismo.
È accanimento narrativo.

E i social — piaccia o no — lo hanno capito molto meglio di chi ora prova a spiegare perché “non parlava di quello”.

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